La mostra all’Arsenale – Biennale Arte 2019, Venezia
Sopra: Anicka Yi, Biologizing the Machine. Foto © Riccardo Bianchini / Inexhibit
Biennale Arte 2019, “May You Live in Interesting Times” – la mostra all’Arsenale
“May you live in interesting times”è suddivisa in due parti– “proposta A”, allestita negli spazi dell’Arsenale (Corderie e Artiglierie) e “proposta B”, nel padiglione Centrale dei Giardini di Castello.
Questa impostazione deriva dalla scelta del curatore, Ralph Rugoff, di mettere in risalto gli approcci e le letture differenti con cui ciascuno dei 79 artisti invitati ad esporre interpreta i temi portanti del nostro tempo: dalle questioni di genere, etnia e sessualità al rapporto con l’ambiente naturale, dalle paure che ci suscita lo sviluppo dell’intelligenza artificiale all’attualissimo tema della produzione e diffusione delle notizie al tempo della globalizzazione e della dittatura dei social network.
Questa molteplicità di visioni, messe in relazione “ci invita a considerare la realtà da prospettive alternative e a riconoscere i modi attraverso cui l’ordine si è trasformato in presenza simultanea di diversi ordini” (Dalla presentazione di Ralph Rugoff)
58a Biennale d’Arte di Venezia, mostra all’Arsenale, pianta generale; immagine: La Biennale di Venezia
Presentiamo qui una selezione di artisti esposti negli spazi dell’Arsenale di Venezia.
Rosemarie Trockel, One Eye too Many, 2019
La griglia di immagini – collage e istantanee elaborate digitalmente- apparentemente scollegate fra loro, se osservate attentamente rivelano rimandi visivi e simbolici, a volte nascosti, altre più evidenti.
Rosemarie Trockel, One Eye too Many. Foto © Federica Lusiardi / Inexhibit
Kemang Wa Lehulere, Dead Eye, 2018
Ricca e stratificata già dai materiali utilizzati, l’installazione di Kemang Wa Lehulere è un opera poetica e politica che si collega alla storia del Sudafrica: i dischetti in legno – ricavati da banchi di scuola -sono le porte delle numerose case per uccelli che l’artista ha realizzato nel corso degli anni; case che sono il simbolo dei trasferimenti forzati subiti da molti sudafricani a causa dell’apartheid.
Kemang Wa Lehulere, Dead Eye. Foto © Riccardo Bianchini / Inexhibit
Martine Gutierrez, Body En Thrall
L’opera dell’artista Martine Gutierrez affronta il tema dell’identità di genere attraverso grandi foto patinate nelle quali si immortala in un gioco fra corpi reali e artificiali. Le immagini sono state realizzate per il suo lavoro più noto “Indigenous Woman”, una pubblicazione che ricalca le riviste patinate di moda nella quale Gutierrez interpreta i diversi ruoli di modella, art director, fotografa e designer.
Martine Gutierrez, Body En Thrall. Foto © Riccardo Bianchini / Inexhibit
Yin Xiuzhen, Trojan, 2016-17
L’artista cinese Yin Xiuzhen crea grandi installazioni usando il tessuto che ricava da indumenti smessi con i quali, in un certo senso, rende vivi gli individui a cui sono appartenuti e le cui voci sono spente in un’epoca di omogeneizzazione e globalizzazione.
Yin Xiuzhen, Trojan. Foto © Riccardo Bianchini / Inexhibit
Jesse Darling, March of the Valedictorians, 2016
Vecchie sedie sostenute da esili steli, che le rendono traballanti e apparentemente fragili, formano un installazione intensa e allo stesso tempo non monumentale dalla quale emerge il senso del reciproco sostenersi.
Jesse Darling, March of the Valedictorians. Foto © Riccardo Bianchini / Inexhibit
Anicka Yi, Biologizing the Machine (tentacular trouble), 2019
Baccelli traslucidi appesi a cavi. Sono esseri biomorfi simili a crisalidi che evocano, in modo disturbante sia i temi della malattia che della decomposizione della materia.
Anicka Yi, Biologizing the Machine (tentacular trouble). Foto © Riccardo Bianchini / Inexhibit
Alexandra Birken, Eskalation, 2016
Attraverso decine di figure umane, alcune rappresentate nell’atto di inerpicarsi su lunghe scale a pioli altre già cadute, l’opera riflette la tensione fra successo e fallimento, fra speranza e disperazione. Sviluppata in verticale nello spazio delle corderie, l’installazione mette in scena una visione apocalittica della la fine dell’umanità.
Alexandra Birken, Eskalation. Foto © Riccardo Bianchini / Inexhibit
Liu Wei, Microworld, 2018
Liu Wei mette lo spettatore davanti a un insieme di sfere e forme arrotondate in alluminio che ricordano un agglomerato di atomi e molecole ingigantiti. Il vetro che separa il visitatore dall’opera rende esplicito il fatto che la osserviamo da fuori, come fosse sotto la lente di un microscopio o sotto la teca di un laboratorio.
Liu Wei, Microworld. Foto © Riccardo Bianchini / Inexhibit
Tarek Atoui, The Ground, 2018
L’artista e compositore di origine libanese Tarek Atoui ha realizzato un ambiente nel quale sono disposti gli strumenti musicali creati in seguito ad un viaggio in Cina, nel quale ha potuto osservare utensili, strumenti, e architetture tradizionali. Gli strumenti, che producono suoni in modo autonomo, stimolano modalità percettive diverse: visive, tattili e uditive.
Tarek Atoui, The Ground. Foto © Riccardo Bianchini / Inexhibit
Jill Mulleady, The Fight was Fixed, 2018
Ispirata al “Fregio della vita” di Edvard Munch, quest’opera di Mulleady rappresenta scene urbane dalle quali emergono la violenza e lo scontro. Nel suo insieme la composizione, che si estende in orizzontale, rimanda visivamente alla strada di una città.
Jill Mulleady, The Fight was Fixed. Foto © Riccardo Bianchini / Inexhibit
Shilpa Gupta, For, in your tongue, I cannot fit, 2017-18
L’installazione sonora restituisce le voci di 100 poeti che sono stati imprigionati o giustiziati per la loro scrittura o per le loro opinioni politiche. I microfoni sono sospesi sopra 100 punte di metallo sulle quali sono stati infilate le pagine con le poesie. Ogni microfono/altoparlante riproduce i versi e ogni ciclo, che dura un’ora, comprende la lettura in diverse lingue.
Shilpa Gupta, For, in your tongue, I cannot fit. Foto © Riccardo Bianchini / Inexhibit
Christoph Büchel, Barca Nostra, 2019
Il progetto Barca Nostra, realizzato da Christoph Büchel in collaborazione con il Comune di Augusta, porta alla Biennale d’Arte di Venezia la testimonianza del più grande naufragio avvenuto nel Mediterraneo, il 18 aprile 2015 nel Canale di Sicilia, 193 km a sud dell’isola di Lampedusa.
Solo 28 le persone sopravvissute e tra 700 e 1100 le persone disperse.
Dalla fine delle operazioni di recupero e di identificazione dei corpi rimasti dentro l’imbarcazione, si sono susseguite varie proposte su come mantenere la memoria dell’accaduto, e dopo l’arrivo della barca sul molo NATO di Melilli è stato istituito il ‘Comitato 18 Aprile 2015’ con l’obiettivo di preservare la memoria della tragedia creando un “Giardino della memoria” ad Augusta, in Sicilia. Quattro anni dopo il naufragio, il 18 aprile 2019, il battello è stato rilasciato dalla Presidenza italiana del Consiglio dei ministri e dal Ministero della Difesa italiano per essere consegnato al Comune di Augusta . La barca ha quindi lasciato la base NATO con destinazione Arsenale di Venezia, città fondata da profughi in fuga, dove rimarrà per tutta la durata della 58° Biennale d’arte.
Attraverso Il progetto BARCA NOSTRA si attua un trasferimento simbolico dello stato dell’imbarcazione, che cambia il suo status giuridico da oggetto di prova giudiziaria a manufatto, e da “contenitore speciale da smaltire” a bene culturale; certo un simbolo significativo di questi nostri” tempi interessanti ” evocati dal titolo della biennale curata da Ralph Rugoff.
BARCA NOSTRA è una reliquia, ma anche un monumento all’emigrazione contemporanea, che coinvolge confini reali e simbolici e vede la negazione della libertà di movimento di informazioni e di persone. La nave è diventata un oggetto simbolico dedicato non soltanto alle vittime del tragico evento del 2015 ma alla nostra responsabilità e alle politiche collettive e politiche che creano questi relitti.
Christoph Büchel, Barca Nostra. Foto © Riccardo Bianchini / Inexhibit
Ryoji Ikeda, Data-verse 1, 2019
L’opera visuale e sonora ‘Data-verse 1’ trasforma la moltitudine di dati che Ikeda ha acquisito da istituzioni come il CERN, la NASA e Human Genome Project in un componimento poetico.
I “versi digitali”, proiettati in un’area dimensionalmente limitata, trasportano chi guarda in uno spazio profondo come l’universo, nel quale si susseguono costellazioni di numeri, lettere e segni.
Ryoji Ikeda, Data-verse 1. Foto © Riccardo Bianchini / Inexhibit
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